RECENSIONE | EVERYMAN... disincanto sulla vita e sulla morte

Everyman (Everyman) è un romanzo dello scrittore statunitense Philip Roth, pubblicato nel 2006. Il titolo è tratto da un anonimo morality play quattrocentesco, cioè un classico della prima drammaturgia inglese, che ha per tema la chiamata di tutti i viventi alla morte.
Il romanzo si apre con il funerale del protagonista (di cui non si conosce il nome) e con parenti e amici che ne ricordano la vita secondo il tradizionale rito ebraico.

Il narratore ci porta a ripercorrere la storia del protagonista e di tutti i suoi incontri avuti con la morte: quando da bambino fu operato per un'ernia, quando col fratello ritrovarono il corpo di un soldato tedesco. Il romanzo racconta l'incontro di un uomo con la propria mortalità, la vita del protagonista ci è raccontata sia tramite i suoi avvenimenti più importanti e fasi cruciali dell'esistenza (la giovinezza, i matrimoni, il tradimento) sia tramite la morte di personaggi e diverse esperienze ospedaliere del protagonista.

Che cos'è la morte? Dal momento che è l'argomento su cui verte Everyman (come al solito sempre allegrissimo Philip Roth!) e dal momento che bene o male è lui stesso durante la narrazione a porsi e a porci la domanda, mi sembra lecito che venga ripetuta e mi sembra anche lecito che ci si ragioni su.
Qualcuno potrebbe definirla come il contrario della vita, tutto ciò che non è vita. Vero, forse però sarebbe un po’ troppo semplice, qualcuno allora potrebbe interpretarla come la cessazione di tutto, quell'evento , quel 'fastidioso imprevisto', che una volta verificatosi tutto smette di esistere: il signor Pincopallo è morto dunque ha smesso di esistere, le sue funzioni vitali sono cessate e dunque non è più vivo. Vero anche questo, forse però ancora una volta troppo limitato, già poiché se è vero che una cosa finché non la si sperimenta non la si conosce fino in fondo, è altrettanto vero che la natura burlona nel nostro caso non ci accorda la possibilità di tornare a riferire cosa si prova e in cosa consista una volta sperimentata. Di fatto dunque le nostre sono solo illazioni, ipotesi, nient'altro che immaginazione, e allora perché non dare peso anche all'interpretazione del credente, del religioso, di colui che affida a un ordine superiore delle cose la sua stessa vita? Perché non credere che ci sia dell'altro oltre la morte? Perfino l'ateo, l'agnostico, almeno per onestà intellettuale non dovrebbero escludere ogni eventualità a priori, no? Dunque che cos'è la morte per il credente? Per i cristiani è il passaggio che permette all'uomo di ricongiungersi con Dio, e simile deve essere anche per coloro che osservano le altre religioni, qui ammetto la mia ignoranza, tuttavia di per certo so che alcuni credono addirittura che non esista una sola morte, ma tante, tante quante le vite in cui ogni volta ci si reincarna. E dunque perché considerare la morte esclusivamente come la totale cessazione del singolo essere e non come una delle centinaia di cessazioni delle centinaia di possibili esseri?
Altre ancora sono le ipotesi e illazioni che rischiano di far impelagare il discorso tra gli intricati istmi della teologia e della filosofia ma meglio mantenersi sul semplice del nostro caso, noi non siamo dei Philip Roth, tuttavia ci sono altre due interpretazioni che mi par doveroso aggiungere poiché fondamentalmente legate al messaggio del romanzo; la prima è quella dell'ottimista o del giovane ragazzo: la morte è qualcosa che accadrà in futuro ma che grazie a Dio è ancora lontana e dunque appunto è inutile pensarci; la seconda è quella del pessimista o dell'anziano: la morte è quell'estrema inevitabilità a cui si incomincia a correre incontro non appena nasciamo.

Domande banali, verrebbe da pensare, eppure fondamentali nel corso di un'esistenza, nel corso della propria esistenza, poiché sono quelle che definiscono una vita, che esemplificano la coscienza individuale e, sottraendo linfa alle reminiscenze di una vita, si elevano a simboli del vivere stesso, al vivere di ogni uomo, appunto di Everyman.
E' innegabile che lo stile con cui è scritto Everyman in diversi punti potrebbe essere chiamato in causa come prova dell'evidente ed eccessivo coinvolgimento dell'autore stesso nel suo romanzo: se il suo obiettivo era quello di dipingere un quadro realistico della vita di un uomo, piuttosto che rappresentarne l'evoluzione della coscienza lungo il corso degli anni, sarebbe stato auspicabile un tono più distaccato, che conferisse identico peso e valore sia agli anni della giovinezza del protagonista, che a quelli della maturità, che a quelli della senilità e dunque che non fosse nettamente sbilanciato verso quest'ultima, ricca di nostalgici e deprimenti considerazioni. Sarebbe stato auspicabile all'inizio uno stile che, traendo dalla istintiva vitalità della gioventù e dalla adulta consapevolezza della maturità, riuscisse a descrivere un'esistenza in maniera più equilibrata.

Un Roth sempre pungente e riflessivo, con tematiche ondeggianti tra il filosofico e l'antropologico, a scrutare la vulnerabilità dell'animo umano e l'insondabilità della vita. Una scrittura che scandaglia la profondità delle parole, usandole e dosandole in una struttura armonica e centellinata con maggiore intimità, fermo restando la crudezza nella narrazione.
Questo libro mi costringe a richiudere tutte le porte che non dovevano ancora essere aperte. Soprattutto quelle che spaventano maggiormente, quelle che racchiudono all'interno giorni da vivere nel ricordo e nella nostalgia di ciò che si è avuto e non si potrà più avere.
Un romanzo convenzionale eppure, nel suo singolarissimo modo, particolare, che racconta di una storia comune e la racconta con uno stile sbilanciato e tetro, lucido e vitale.
E una volta letto, tutti a fare scongiuri.



Il mio voto: 4



Enrico

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