RECENSIONE | TRILOGIA DELLA CITTA' DI K... sopravvivenza e scarnificazione
Trilogia della città di K. (Trilogie des jumeaux) è un romanzo della scrittrice ungherese Agota Kristof. Si compone di tre parti: Il grande quaderno (Le grand cahier), pubblicato separatamente nel 1986, La prova (La Preuve) del 1988 e La terza menzogna (Le Troisième Mensonge) del 1991.
I romanzi raccontano la vita di due gemelli, Lucas e Claus/Klaus,
dei loro familiari e delle persone che essi conoscono e con cui
intrecciano rapporti durante la seconda guerra mondiale.
Sono nomi anagrammati, e per tutto il libro risultano
personaggi interscambiabili in un rapporto dapprima morboso poi
incredibilmente distaccato.
Due gemelli a riscoprire le loro radici, ad inseguire un passato, una
ricerca dolorosa in cui gli inganni dell’uomo sono secondi soltanto a
quelli della ragione. Nella città di K., nel mondo martoriato da
deflagrazioni e pallottole furenti, uomini, donne, bambini e vecchi
sono carne da macello.
Soffrire significa soccombere e non conoscere. Nel desolante panorama
della città, nessuno è risparmiato e la penna si sofferma con inesausta
crudezza su bimbe stuprate da soldati, su uomini
dilaniati dalle mine, sulla follia, su animali impiccati o annegati. La
guerra deturpa l’uomo, lo fa regredire alla ferinità.
Tutto ha inizio con una madre disperata è costretta ad
affidare alla nonna i proprio figli, lontano da una grande città dove cadono le bombe e
manca il cibo. Siamo in un paese dell'Est, ma né l'Ungheria né alcun
luogo preciso vengono mai nominati. La nonna è una 'vecchia strega' sporca, avara e senza cuore e i due gemelli, sono due
piccoli maghi dalla prodigiosa intelligenza. Intorno a loro ruotano
personaggi disegnati con pochi tratti scarni su uno sfondo di fame e di
morte.
Non c’è speranza , non c’è redenzione, non c’è bellezza, soltanto
disperazione. La guerra, fantasma assillante e concreto, assorbe la
serenità, avvolge il mondo in un fumo denso e grigio. L’amore non è rosso, non trionfa,
anzi, perde miseramente. Ossessioni e demoni emergono dagli abissi
dell’animo a disgregare le mura della razionalità, a tentare di
aggrapparsi alla serenità. Nell’Europa in guerra
pensare di vivere è soltanto un’utopia lontana che nemmeno sfiora la
mente. Nel processo di
scarnificazione cui la realtà qui è sottoposta, la brutale legge della
sopravvivenza si fa paradigma per analizzare il
mondo, per difendersi, per riuscire a non soffrire. Scarnificazione
delle emozioni, della libertà dell’infanzia, del gioco e dell’intelligenza.
Se la guerra fa soffrire, allora è necessario abituarsi al dolore. Se
l’uomo è costretto a vivere nella realtà, allora bisogna abituarsi alla
verità. Se il mondo tenta di sopraffarti, allora bisogna essere crudeli.
È l’intelligenza di due gemelli, lo sguardo penetrante e
straordinariamente maturo di due giovani a descrivere la loro lotta in
un mondo deserto, sterile. E se Dio è morto, allora bisogna apprendere
cosa sia la vera solitudine.
La linearità della prima parte, le frasi così brevi da morire sotto il
fuoco di trincea, così affilate da ferire per la
crudeltà, così abilmente soppesate per colpire là dove la carne è più
debole, si sciolgono in una scrittura più complessa, ma mai complicata,
che mantiene intatta una brutalità inestinguibile. Alla prima persona
plurale, punto di vista originario, si sostituisce la terza singolare,
poi la prima singolare, in un dialogo serrato con un 'tu' immaginario
con cui il lettore s’identifica.
La chiarezza del primo scritto sembra annebbiarsi
poco a poco, fino a dissolversi nella confusione dell’ultimo capitolo.
Eppure il processo alla fine è chiaro, ma ormai è troppo
tardi. Lo scorticamento dell’anima che sembrava ormai concluso esige una
nuova muta, una nuova metamorfosi, quando l’uomo raggiunge l’orlo del baratro i dettami
morali si palesano in tutta la loro effimera consistenza: non si può
giudicare, né si deve farlo. Alla fine la pelle si perde definitivamente
a diventare scheletri appesi per l’eternità ad un desiderio morto,
privi di difesa di fronte a un mondo che si manifesta in tutta la sua
crudeltà.
Il primo capitolo di questa favola nera rimane il migliore, il più doloroso e magnetico, con un ritmo placido e misurato che anima un mondo nuovo dai confini
imprecisati come una marionetta assassina.
E' interessante perdersi tra i vortici creati ad hoc da Agota Kristof nelle pagine di Trilogia della città di K., un romanzo duro, amaro e a tratti crudele, dove la tragedia non viene mai
edulcorata, ma graffia come una belva furiosa. Da immagini di guerra,
bombe, morte, ad immagini di annientamento psicologico, di ottenebramento e
sdoppiamento.
L'arma vincente è lo schema narrativo adottato, ricco di effetti destabilizzanti per il lettore, condotto attraverso un rincorrersi di sogni e realtà, un gioco degli specchi, di tunnel spazio-temporali in cui perdersi. E' una maniera alternativa per scrivere degli orrori della guerra, senza necessità di focalizzare l'attenzione su città e nomi precisi, perché le tragedie sono multiple e si intrecciano seguendo strade diverse.
L'arma vincente è lo schema narrativo adottato, ricco di effetti destabilizzanti per il lettore, condotto attraverso un rincorrersi di sogni e realtà, un gioco degli specchi, di tunnel spazio-temporali in cui perdersi. E' una maniera alternativa per scrivere degli orrori della guerra, senza necessità di focalizzare l'attenzione su città e nomi precisi, perché le tragedie sono multiple e si intrecciano seguendo strade diverse.
In questa trilogia realtà e sogno ad occhi aperti sono sapientemente
intrecciati e poi sciolti e mentre i fatti emergono in
tutta evidenza ci si accorge che il tentativo di alterarli non è andato a
buon fine: da un destino di dolore e solitudine non si può comunque
fuggire.
Un romanzo sulla memoria, sulla fugacità e sulla solitudine imposta dal destino. Questa è un'opera di terrore, di dolore e di rassegnazione, esattamente nell'ordine in cui li ho citati.
Atmosfere cupe, linguaggio scarno, contenuti duri e a volte scabrosi,
è questa la scrittura della Kristof, pacata e rabbiosa, deprimente e mai
banale.
Un impianto narrativo ad effetto, studiato dal suo incipit alla sua
conclusione, orchestrato con maestria stilistica, punteggiato da
istantanee destinate ad imprimersi nella pupilla e nel cuore del
lettore.
Grande e implacabile è il senso di vuoto e desolazione che si innalza al termine del lungo viaggio, un vortice finale di speranza e disperazione avvinghiati e inseparabili.
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